Altilia è uno fra i più antichi paesi della valle del Savuto, ricco di storia, arte e tradizioni.
Secondo alcuni, pare che un tempo si chiamasse Stralonga o Stralunga. Per altri prese il nome dalla sua ubicazione, per altri ancora fu ripopolata da Giovan Corrado e Altilio dell’Alimena, provenienti da una terra chiamata Alimena, nei pressi di Mendicino, distrutta dai Saraceni.
Secondo Padula, infine, il suo nome “Altilia” potrebbe derivare sia dal greco “Atèlia” (il cerchio dello staccio) per cui andare in Altilia significherebbe “andare al vaglio” cioè al luogo dove si fabbricavano i vagli (i cosiddetti “crivi”) e sia dal vocabolo “Atèleia” (immunità di tributi) per un qualche privilegio avuto dal paese in passato.
Comunque sia, Altilia ebbe origini molto antiche. Lo stesso Andreotti che nella “Storia dei Cosentini” situa le origini dei Casali nel quadro delle incursioni Saracene tra il 975 ed il 986, scrive : “Un altro territorio che non fu fondato, ma ripopolato da gente cosentina nel 976 è Altilia, sul Savuto”. Tommaso Aceti, accademico cosentino e beneficiario della Basilica Vaticana, nelle note apposte al “De Antiquitate” del Barrio sostiene: “Numerose testimonianze archeologiche provano inequivocabilmente che alcuni paesi abbiano origine più antica di Cosenza. Si pensi solo ai rinvenimenti di terracotta del periodo ellenistico nei territori di Altilia e Grimaldi ed alle monete d’argento (sec. VI-V A.C.) rinvenute nei pressi di S. Stefano di Rogliano”.
Dall’anno mille in poi, il paese fu legato alle vicissitudini dei Casali di Cosenza. Nel 1638 fu quasi raso al suolo dal terremoto che interessò la Valle del Savuto nella linea Nocera-Martirano-Motta S.Lucia-Rogliano-Cosenza. Fra il capoluogo e la frazione Maione si ebbero 132 morti e 235 case distrutte.
Gli altiliesi diedero un forte contributo all’Unità d’Italia. Nel 1811 fu Vincenzo Federici, detto Capobianco, a fondare in loco la prima vendita dei Carbonari Calabresi per cui incominciarono a ruotare intorno alla cittadina numerosi esponenti della cultura e della borghesia cosentina.
Da Altilia partirono numerosi tentativi di insurrezione tanto che i Borboni, per annientare Federici, decisero di attaccarlo nella sua rocca. Scrive a tal proposito Andreotti : “Assalirono il paesetto uno squadrone di cacciatori a cavallo – un battaglione del quarto leggero – due compagnie della scelta e due compagnie di Corsi. Bloccossi Altilia ed il Capobianco chiese di parlamentare. Egli promette di presentarsi a Manhés, elude la forza, si pone in salvo ed il colonnello, vedutosi tradito, ordina del comune il sacco e il fuoco. Il Capobianco che un ascendente positivo aveasi assunto sui Carbonari dell’una e dell’altra Calabria, morì impiccato a Cosenza all’età di 31 anni”.
Uomini di Altilia troviamo anche nei moti del 1848, tra i quali Luigi Caruso, Francesco Federici e Gaspare Marsico. Altri uomini illustri furono: Tommaso da Altilia (sec. XVI-XVII) dell’ordine dei Minimi, Gabriele Marsico (1428-1501) maestro e segretario di re Ferdinando, che fu eletto nel 1471 vescovo di Policastro, Gaspare Marsico deputato e patriota, Bernardino Alessio teologo, Giambattista Caruso scrittore e giornalista, Giuseppe Caruso economista, Tommaso Caruso poeta, Giovanni Caserta dell’ordine dei Minimi, Vincenzo Marsico politico, Pietro Schettini riformatore della poesia Italiana.
L’arte regina di Altilia è stata sempre quella degli Scalpellini, conosciuti ed apprezzati in tutta la Calabria citeriore. Ne sono testimonianze i portali e le facciate delle chiese di Altilia, Malito (compreso il campanile), Grimaldi, Carpanzano, Rogliano, S. Stefano, Cosenza (il Duomo).
Fra i monumenti che arricchiscono il paese citiamo: la Chiesa di S. Maria Assunta del XVI secolo il Convento del 1500.
Altra struttura, risalente al 1619, è il palazzo Marsico, ora sede municipale. Caratteristico è il portale d’ingresso sormontato da un poggiolo con mensole balaustre, opera di maestranze locali che hanno utilizzato le famose pietre delle cave dette “Parrere”. Nella frazione Maione oltre alla bella chiesa dedicata a S. Giovanni, si possono ammirare gli antichi portali di casa Pagliuso e De Caro e Palazzo Amantea.
Fonte:
Altilia e la sua gente. Cenni storici e personalità di un comune della valle del Savuto.
Autore:
Gianfranco Ferrari
La Chiesa Parrocchiale dedicata a Santa Maria Assunta venne eretta nel ‘400 e subì consistenti rifacimenti tra il ‘500 e il ‘700; quello del ‘600 fu dovuto all’interessamento di Leonardo Romano.
La facciata principale in pietra locale, stile tardo-romanico, con stemmi, ornamenti a rilievo, restauri e aggiunte dei secoli XVII e XVIII, rappresenta nei palinsesti delle diverse maestranze locali uno dei capolavori d’arte più belli della Valle del Savuto, tanto da fare scrivere ad Alfonso Frangipane che “la Chiesa parrocchiale dell’Assunta e di San Sebastiano di Altilia è una specie di palinsesto e meriterebbe da sola uno studio particolare; essa ha dei pezzi di facciata medievale; il campanile a pianta quadrilatera in parte del Rinascimento, sempre in tufo, è di maestranze locali, cui sono sovrapposti rifacimenti barocchi fino alla parte cuspidale”.
Il portale, fiancheggiato da intrecci, è sormontato da una cornice ogivale, anch’essa in tufo, con decorazioni e fregi ornamentali finemente modellati, dentro la quale un tempo si trovava un affresco, oggi sostituito da un mosaico a perline, raffigurante l’Assunta.
Il campanile è dato da una torre quadrilaterale; un tempo molto alto e sembra fungesse da torre di avvistamento.
L’interno, interamente rifatto con elementi barocchi, è a tre navate divise da pilastri ad arcate simmetriche con basamento in tufo modellato e cornici armonicamente collegate alla volta. La navata centrale, illuminata da grandi finestroni, artisticamente sagomati, è dotata di stalli corali in noce, intagliati nelle cornici e nei dorsali, collocati ai lati del presbiterio con due seggi decorati a tronetto. Sempre sull’altare interessanti sono le panche corali in legno di noce intagliato. L’altare maggiore, in marmo e legno, è ornato da due fregi laterali che alle estremità formano dei particolari capitelli reggivasi.
Spicca inoltre, sulla parete centrale dell’altare, la pregevole pala di Guglielmo Borremans, pittore fiammingo, dipinta ad olio su tela e raffigurante la Madonna Assunta in cielo, completata al centro dell’abside, da un affresco, opera di artisti meridionali del Settecento, raffigurante la Santissima Trinità in atto di incoronare la Vergine Assunta.
L’arco maggiore, con base in pietra egregiamente modellata, culmina con due angeli a rilievo che reggono dei festoni in gesso. Le due navate laterali ricalcano lo stile di quella centrale; lungo la parete di sinistra si notano quattro altari in gesso decorato in sobrio barocco, sul secondo dei quali, dedicato a San Sebastiano, si trova una torre indicante la torre o il castello di Altilia; quello della parete frontale, dedicato al Santissimo Sacramento, era sormontato da una pregevole tela raffigurante Cristo in Croce con ai piedi le anime purganti, dipinto settecentesco ad olio (non più presente), opera di artista di scuola napoletana. Nella navata di destra si trovano tre altari del medesimo stile, con quello centrale dedicato alla Madonna del Rosario. Su ogni altare erano un tempo presenti tele ad olio, sciaguratamente rimosse per far posto a nicchie per le statue devozionali.
Appartengono alla schiera delle opere d’arte di questa Chiesa: una statua lignea dell’Immacolata intagliata a tutta figura e vistosamente dipinta da artisti di scuola napoletana; il fonte battesimale il cui coperchio di rame sbalzato con arcaiche decorazioni bulinate e croce patriarcale in alto è un vero gioiello dell’arte metallica medievale ed ha valore documentale; la statua di San Sebastiano, probabilmente del XV secolo ed il Crocifisso settecentesco.
Notevoli sono inoltre le due acquasantiere in alabastro nero a forma di conchiglia attaccate ai due pilastri della navata centrale e i due confessionali in legno di noce con intarsi, a fitto lavoro, in legno più chiaro del secolo XVII.
Sotto il pavimento della Chiesa, un tempo venivano seppelliti i defunti in quanto veniva utilizzato come luogo di sepoltura dei fedeli. Ciò lo si può constatare dal fatto che alcuni lastroni del pavimento presentano dei fori che servivano per facilitarne il sollevamento e poter così seppellire i morti. Nell’ultimo restauro della Chiesa si è provveduto a raccogliere gran parte delle ossa in apposite cassette e portarle nell’attuale cimitero; altre invece si conservano ancora oggi sotto il pavimento e si possono intravedere sollevando alcuni lastroni.
Fonte:
Altilia e la sua gente. Cenni storici e personalità di un comune della valle del Savuto.
Autore:
Gianfranco Ferrari
Lungo il tragitto verso il mare del fiume Savuto, troviamo, nei territori di Altilia e Scigliano, un ponte romano (II secolo a: C.) detto di S. Angelo o di Annibale, monumento storico nazionale che insieme al ponte Fabbrico dell’isola tiberina (69 a. C.) sono i più antichi d’Italia.
Il prof. Emilio Barillaro scriveva: […] ”Il ponte fu gittato dai romani a servizio della via Popilia nel 203 A.C.; distrutto dagli stessi costruttori all’epoca della sconfitta di Annibale per arrestare la fuga di costui ed impedirgli di raggiungere il mare e poi ricostruito con lo stesso materiale edilizio e con lo stesso modulo architettonico dei genieri del generale cartaginese per il transito della sua armata.”
Il Padula in “Calabria prima e dopo l’unità” scriveva:” Quel ponte può dirsi l’unico monumento architettonico della provincia. È un solo arco colossale della luce di cento palmi che comincia dal suolo e non s’appoggia ai pilastri. Vi si ascende per una scaglionata che lascia tra sé e l’arco del ponte un vuoto dove si ricoverano i pastori. Mentre tu sali spesso ti viene all’orecchio uno scoppio di riso; e sono foresi e forosette che ridono sotto i tuoi piedi. Il ponte è di piperno (roccia eruttiva effusiva, n.d.r.) e se ne ignora l’autore. Il volgo lo crede opera del diavolo e crede di vedere sopra alcune pietre l’impronta di sua mano e va a cercarvi tesori.”.
L’archeologo Edoardo Galli disse: […] “guardando, poi, le fiancate appare evidente l’intenzione dei costruttori di restringere artificialmente, ridurre quanto più possibile la valle, per soverchiarla con un solo, arditissimo, arco. Questo è all’incirca, alto 13 metri e largo il doppio, ma nell’antichità doveva librarsi ad una altezza vertiginosa, poiché è risaputo che tra i fiumi della Calabria il Savuto è uno dei più noti e temuti per piene e devastazioni. Quindi non v’è dubbio che in più di duemila anni il fiume abbia colmato una buona metà dell’altezza primitiva. Infatti non si vedono i pilastri su cui poggia la volta perché sono sotterrati nella ghiaia e come si può notare oggi, il fiume scorre a livello della corda dell’arco”.
Il ponte faceva parte dell’antica via romana, la Popilia, che venne costruita a partire da Reggio Calabria per poi congiungersi con le altre arterie che portavano a Roma. Il tracciato antico della strada da Reggio Calabria costeggiava il Tirreno, toccava Vibo Valentia, la Piana di S Eufemia, risaliva la Valle del Savuto, attraversava il ponte sul fiume e saliva ai Campi di Malito. Proseguiva poi per lo stretto corridoio del torrente Iassa, sboccava nel Busento all’ altezza del vecchio quartiere di Portapiana. In seguito, seguendo la sponda del Crati sino a Tarsia, quindi Morano, il Vallo di Diano e tagliando Salerno, Nocera e Capua, si congiungeva alla via Appia che portava a Roma.
Il Ponte romano, la cui data di costruzione risale a II secolo a.C., fu costruito con archi in tufo calcareo rosso prelevati da una cava sulla parete di una collina vicinissima al ponte. Ancora oggi si vedono i profondi tagli sulla parete, operati dagli schiavi al servizio dell’esercito romano. Questi blocchi venivano precipitati a valle e cadevano proprio dove oggi sorge il ponte. Questi massi venivano, poi, lavorati e messi in opera o adoperati per fare la calce nella fornace adiacente, anch’essa ritrovata in passato. Le fondazioni del ponte si trovano ad profondità di circa 1,50 m dal piano attuale del greto del fiume. Sono costituite da una platea di due ordini di blocchi squadrati e sovrapposti per una larghezza di 5 m e una lunghezza pari a quella del ponte compresa la rampa di salita dell’estremo più basso. L’altezza di questa platea e circa di 1,50 m. La volta è costituita da due archi concentrici a tutto sesto di blocchi squadrati di tufo secco sfalsati. Il secondo arco è in tufo per le parti prospettiche e in pietrame e pozzolana all’interno, a copertura del primo arco portante. Da rilevare che a Roma il primo esempio di costruzione a doppio arco concentrico si ebbe nello sbocco della Cloaca Massima costruita nel 580 a.C.
L’arco portante è impostato direttamente sulla platea di fondazione, senza pile di appoggio, e il secondo arco ha solo funzione di rinforzo e di contrappeso al primo. La lunghezza dell’arco è di 21,50 m mentre la larghezza è di 3,55 m. L’altezza massima è di 11 m rispetto all’attuale piano del fiume.
I romani in virtù dell’importanza del ponte, lo costruirono in modo da sfidare il tempo e le intemperie, comprese le piene del Savuto.
Lo costruirono a secco, sapevano già allora che diversi materiali non davano la certezza di durare, proprio per la diversa dilatazione dei singoli materiali. I blocchi di tufo al contrario dopo oltre duemila anni si sono suturati con il calcare scioltosi dalle stesse pietre, tanto da formare un unico blocco.
Il piano di calpestio, la cui lunghezza totale è di 48 m, è stata costruito in muratura con pietrame di fiume e pietra pozzolana. Da un lato troviamo una tipica rampa romana che poggia sulla roccia della collina. Sull’ altro lato poggia invece su un arco trasversale chiuso da muri dallo spessore di 50 cm. Accanto al ponte, nei suoi estremi, esistono i resti di due garitte, utilizzate per riparare le truppe a protezione del ponte, resti ormai irrimediabilmente compromessi. Vicino al ponte, invece, sulle fondamenta di caseggiati romani è stata costruita una vecchia casa colonica, rudere anch’ esso e in parte sede della chiesetta di S. Angelo.
L’antica tradizione popolare diede a questo ponte il nome di Annibale il Cartaginese, ma gli studi, condotti dallo storico meridionale Eduardo Galli nel 1806, pare neghino queste convinzioni. Lo studioso, infatti, afferma che: “I ritrovamenti, nelle vicinanze, di embrici, di vasi, di monete imperiali, hanno generato nelle anime semplici dei paesani la falsa credenza che Annibale, prima di partire dall’Italia, ci abbia dimorato lungamente costruendo perfino il ponte e che perciò porta il suo nome”.
A smentire questa tesi è, anche, lo stile prettamente romano, l’analisi di cippi miliari sulla via Popilia, e la data di costruzione della detta via Popilia, tra il 131 ed il 121 a.C., cioè ottanta anni dopo il passaggio del generale.
Secondo un’altra leggenda, codesto ponte è conosciuto anche con il nome di ponte S. Angelo, proprio per la presenza di una chiesa dedicata a questo Santo: si racconta che questi abbia sconfitto il diavolo proprio sul ponte e quest’ultimo per rabbia tirando un calcio alla spalla destra del ponte provocò una lesione. Tale lesione non è oggi visibile, poiché fu ricucita durante il restauro avvenuto nel 1961.
Fonte:
Web
Il Convento di Altilia risale al ‘500. Fu edificato da Domenico Agacio e Gerolamo Curaro per l’ordine francescano dei minori conventuali, come risulta dal documento del 1752 riportato da Francesco Russo, e dalla lettura di un’epigrafe recuperata ed apposta sulla parete sud dell’abside della Chiesa, incisa su pietra locale calcarea, dove si legge:
IHERONIMO FERRARO ET AGATIO
MANTIANO PRESBITERI QUAM
MAXIME PER ANNOS DECEMNOVEM AGITA
SOCII HANC DIVI FRANCISCI DOMUM
SUB DIES APRILIS 1533 UNA CUM
PATRI NON SINE MAGNO LABORE
FUNDARUNT QUORUM HIC CORPORA
1575 IACENT AC EORUM ANIMAS
IN CELO SIMUL ESSE CREDIMUS
IACOBO ANTONIO DE PERNA F
Giacomo Antonio Deperna, terziario dello stesso Convento dedicò, in data non citata, a Gerolamo Ferraro ed Agazio Manziano, presbiteri, che insieme, quant’altri mai, diressero per 19 anni questa sede del Divino Ordine Francescano che, non senza grande fatica, uniti alla comunità locale, fondarono nell’aprile del 1533. I loro corpi giacciono nella Chiesa dal 1575 e l’autore si dice certo che le loro anime siano salite insieme in cielo.
È probabile che in questo Convento sia sorta la scuola degli scalpellini ad opera dei monaci che contribuirono all’evoluzione della loro arte ed al miglioramento della cultura e della società.
Il Convento è collocato su una rupe che si affaccia sulla Valle del Savuto. Del Convento restano oggi solo i muri perimetrali che danno, comunque, un’idea piuttosto precisa della sua estensione, mentre la Chiesa, a navata unica, è stata completamente recuperata grazie ed interventi di restauro.
L’accesso al Convento è un lungo corridoio scavato nella pietra sul lato sinistro della Chiesa; il portale è ad arco a tutto sesto, scanalato a più livelli e sormontato da una cornice con ricca trabeazione.
I ruderi del Convento sono coperti dalle defezioni della collina che sovrasta l’area, ma restano ben visibili alcune murature perimetrali del versante est. La Chiesa è situata in posizione dominante rispetto all’insediamento abitativo. Con Palazzo Marsico, ora sede comunale, costituisce, nel piccolo centro di Altilia, un importante riferimento storico da salvaguardare.
Il presbiterio è di forma quadrangolare con piano più elevato rispetto al calpestio dell’aula. E’ collegato ad una piccola sacrestia e tramite il citato corridoio si collega al Convento. Esso delimita la navata unica con 2 costoloni dai quali furono asportati, in passato, i conci di pietra calcarea, sagomati e scolpiti, dell’arco sacro. Le modanature dei conci sono tipiche dell’arte Francescana e rappresentano la testimonianza più importante ed espressiva per la lettura critica del monumento.
Essendo stato possibile il suo recupero, la prima operazione è stata quella di rimettere in sito tutta la struttura dell’arco, che una volta ultimata, ha dato l’idea più precisa dell’altezza originaria della copertura della Chiesa, probabilmente non ad un unico livello.
Inoltre, da alcune vecchie foto, si è potuto accertare che il tetto era a due falde sorretto da capriate lignee e certamente copriva tutta la navata fin sopra l’arco sacro; incerta invece era l’ipotesi di una quota di copertura più bassa sull’ambiente del presbiterio. Oggi, la copertura è stata completamente rifatta con capriata in legno che si lega armonicamente alla vecchia struttura. Per aver reso possibile il rifacimento del tetto, si è dovuto dapprima procedere al completamento del perimetro murario coronato da un cordolo di cemento armato sul quale sono state appoggiate e vincolate le capriate lignee alla palladiana che sostengono la struttura del tetto, impermeabilizzata e coperta con coppi in laterizio.
Le parti di muratura mancanti sono state ricostruite con un “opus” a mattoncino in laterizio che ben si amalgama con il colore della pietra e con le discontinuità delle murature esistenti che hanno subito crolli. Il cordolo in cemento armato è stato costruito leggermente arretrato rispetto al filo del perimetro esterno tanto da averne consentito il rivestimento con lo stesso mattoncino. L’opera è stata eseguita completamente a faccia vista tale che la lettura dei materiali sia immediata.
Il portale d’ingresso non è quello originario: secondo le tracce visibili dall’interno, l’arco era ribassato e più grande. L’attuale portale ad arco a tutto sesto risale probabilmente alla fine del 1700 data la sua somiglianza con altre Chiese dei paesi limitrofi. Tipica è la rosetta scolpita sulle basi dei piedritti che riconosciamo come espressione della mano di scalpellini locali i quali probabilmente eseguirono un portale analogo nella Chiesa di Belsito dedicata a San Giovanni Battista.
La finestra originaria sulla facciata, era nella zona più alta del timpano. Ispirandosi alle rosette dei piedritti, data la non originalità della facciata, gli architetti hanno ritenuto opportuno disegnare una finestra che si adeguasse al portale, di opportune dimensioni e sufficientemente grande per dare luce naturale al vasto ambiente dell’aula.
Le altre finestre già presenti, sono state chiuse con telaio fisso in legno e vetro trasparente. Per quanto riguarda le coperture delle zone del presbiterio e della sacrestia, sono state realizzate a capriate.
Durante i lavori di restauro, sono venute alla luce le tombe dei due edificatori del monumento.
Le tombe sono situate ai piedi dell’abside: una da un lato e una dall’altro. In corrispondenza dell’ingresso e della zona absidale sono individuabili, sotto la superficie del pavimento, altre due tombe.
Lungo l’unica navata, sono dislocati tre oblò in vetro sulla pavimentazione, dai quali si possono intravedere delle celle adibite a fosse comuni. Le cinque tombe presenti nella struttura sono tutte ricoperte da una spessa lastra di vetro. La pavimentazione è stata realizzata con pietra di San Lucido e abbellita con una greca, in laterizi di colore più scuro, che percorre l’intero perimetro dell’aula.
Fonte:
Altilia e la sua gente. Cenni storici e personalità di un comune della valle del Savuto.
Autore:
Gianfranco Ferrari
Dal fortuito ritrovamento avvenuto alle spalle della Chiesa S. Maria delle Grazie e immediatamente a valle del convento, che attualmente ospita la sede municipale, è venuta alla luce la volta di una piccola grotta affrescata con immagini di Cristo, della Vergine, di San Sebastiano e di San Francesco di Paola, alcune ben conservate e quindi ben leggibili, altre poco chiare.
I Minimi sono i religiosi appartenenti all’Ordine dei francescani fondato nel 1435 da San Francesco di Paola, che, dopo una prima approvazione arcivescovile (Cosenza 1471) e pontificia (Sisto IV, 1474), fu definitivamente riconosciuto da Alessandro VI nel 1492. In tale occasione mutò il nome originario di eremiti di San Francesco di Assisi in quello di “frati minimi” con la sua regola, approvata definitivamente nel 1506 da Giulio II.
San Francesco di Paola, quindi, fondava un Ordine religioso nuovo che riproponesse:
ー l’ideale contemplativo del monachesimo ma unendo ad esso un attivo spirito d’apostolato;
ー la rigorosa osservanza della povertà francescana;
ー la pratica di una severissima ascesi.
L’Ordine, che si articola in :
ー religiosi;
ー monache (second’ordine fondato in spagna nel 1495);
ー terziari, maschili e femminili
ha a capo un Correttore Generale, che dura in carica 6 anni. I terziari, a differenza dei religiosi, non sono tenuti all’osservanza dei consigli evangelici in quanto i loro impegni non hanno valore di voti, ma di semplice promessa. Il terz’ordine, come costituito da San Francesco, è un’associazione di fedeli secolari d’ambo i sessi, appartenenti ad ogni stato e ad ogni condizione sociale.
In Altilia, la congregazione dei terziari aveva come sopraintendente la zelante direzione del sacerdote Angelo Serra. Nel Processo calabro, tra gli altri testimoni, vi è una certa suor Perna, correttrice in Altilia di sedici terziarie di San Francesco di Paola, la quale ha attestato che un’antica sorella di quella congregazione, di nome Giovanna Caserta, era stata vessata per vari anni da ossessione maligna e resa libera dal Servo di Dio. Giovanna Caserta venne favorita da molti doni e tra questi quello di conoscere il giorno della sua morte che lei stessa preannunciò sette settimane prima che avvenisse.
I minimi, dopo un periodo di grande espansione, (alla fine del ‘500 erano più di 14.000), decaddero dalla metà del XVIII secolo.
Fonte:
Web
Palazzo Marsico attualmente è la sede del comune di Altilia. Sulla facciata sono raffigurati due stemmi in pietra con l’insegna della famiglia: uno scolpito sul lato sinistro del portale e l’altro opposto sul balcone che sormonta il portale d’ingresso.
L’arma posta alla sinistra del portale risulta illeggibile, anche se da un attento esame sembra che riporti la sagoma di un volatile.
Lo scudo è una variante di quello chiamato “gotico moderno” ed è sormontato da una corona. Tra il capo dello scudo e la corona, si intravede un’inscrizione deteriorata e quindi illeggibile.
Dei tre stemmi posti sul portale, questo è l’unico deturpato, come se qualcuno in passato si fosse accanito sullo stesso; bisogna ricordare che nel 1813, la casa dei Marsico, fu posta d’assedio dalle truppe francesi che avevano il compito di catturare Vincenzo Federico (Altilia 1772 – Cosenza 1813), detto Capobianco, capo della Carboneria in Calabria, che in essa si era rifugiato unitamente ai suoi fedelissimi e che attraverso un passaggio segreto riuscì a sfuggire alla cattura. I francesi, per ritorsione, misero a ferro e fuoco l’abitato di Altilia.
Lo stemma ubicato sul magnifico balcone in pietra che sormonta l’ingresso, riporta la stessa effige di quello che era scolpito nel lato sinistro del portale ed è probabile che questo sia stato opposto successivamente al deterioramento dell’altro, come dimostrano anche lo stile e le dimensioni contenute di questa insegna in pietra che si “perde” nella parte più alta del palazzo, che, tuttavia, tutela e custodisce lo stemma di famiglia. Lo scudo è detto “accartocciato” ed è sormontato da una corona.
Fonte:
Altilia e la sua gente. Cenni storici e personalità di un comune della Valle del Savuto.
Autore:
Gianfranco Ferrari
I MARSICO
Signori di Altilia, Baroni di Campitelli, Lattarico, Regina, Contessa e San Benedetto Ullano, i Marsico sono presenti in Altilia fin dal secolo XV. Di questo periodo ricordiamo Gabriele Marsico, meglio conosciuto come Gabriele Altilio, suo nome umanistico; era, infatti, consuetudine presso gli Umanisti assumere il nome del luogo di origine in sostituzione del cognome.
Gabriele Altilio (Marsico) nasce intorno al 1440 a Cagiano, presso Salerno, da Pietro Francesco. A Napoli è maestro e segretario del principe Ferdinando (poi Re nel 1495) da cui la famiglia riceverà molti privilegi. È autore di eleganti poesie in latino, fra cui un epitalamio per le nozze di Isabella d’Aragona con Gian Galeazzo Sforza nel 1489.
Nel 1493 è nominato Vescovo di Policastro dove muore nel 1501. Il nipote Pietro Francesco, aiutante di campo di Ferdinando d’Aragona, viene da questi investito del feudo di Altilia nel 1495.
Sul finire del secolo XVI Prospero Marsico di Altilia è notaio in Cosenza.
Nel secolo XVI la famiglia possedeva il diritto di enfiteusi anche su territori siti tra Altilia e Motta Santa Lucia.
Certamente, prima del secolo XVIII i Marsico fecero edificare, come ex voto, in Altilia un convento dedicato a Sant’Antonio da Padova, i cui ruderi sono ancora oggi ben visibili.
Tra la fine del secolo XVIII e per tutto l’arco del secolo XIX, i Marsico diventano protagonisti di rilievo del latifondo calabrese, consolidando maggiormente il potere acquisito nei territori della Valle del Savuto.
I Marsico fanno parte di quelle famiglie casalesi che a cavallo di due secoli, ‘700 e ‘800, infondono nuova energia e slancio alla feudalità cosentina; a tal proposito Mario Pellicano Castagna definisce i Marsico “una forza viva e dinarnica”, che trovano le loro origini nel Casale di Altilia, da dove partono verso la loro più importante avventura feudale.
L’artefice di questo sviluppo familiare è Antonio, nato presumibilmente ad Altilia nel 1 707~, il quale, acquistando dalla Principessa di Tarsia, Maria Antonia Spinelli, la terra di Regina col Casale di San Benedetto, il feudo di Contessa, nel 1771 e quella di Lattarico, nel 1773, tutte con le seconde e terze cause civili e miste, zecca e portulania, ne diviene anche Barone.
Da questo momento una parte dei Marsico si trasferisce a Lattarico, mantenendo però per molti decenni ancora legami economici e parentali con Altilia.
Antonio Marsico muore il 15 maggio 1774 ad Altilia nel suo palazzo9 e viene sepolto nel Convento di San Francesco d’Assisi dello stesso luogo; gli succede, come Barone di Lattarico, Regina, Contessa e San Benedetto, il primogenito Francesco, nato presumibilmente ad Altilia nell 740.
Personaggio di primo piano dei Marsico di Lattarico, sposa Maddalena Caputo, figlia di Vincenzo dei Duchi di Torano e di Arma Cavalcanti, e risiede in Contrada San Nicola di Lattarico, mentre Francesco Greco di Grimaldi amministra, dal 1790 al 1805, i suoi beni in Altilia, Grimaldi e Motta Santa Lucia.
Nel 1787 lo zio Giuseppe, ex ufficiale di Carlo III di Borbone, lo nomina suo erede universale, dopo aver lasciato alle nipoti Serafina, Rosa e Vittoria mille ducati ciascuno.
Già nel 1781, il Barone Francesco aveva ricevuto dal fratello Giuseppe tutti i suoi diritti ereditari, in cambio della somma di 300 ducati annui per un suo dignitoso mantenimento’.
Giuseppe Marsico, pur avendo riconfermato la donazione nel 1784, la revoca però nel 1814 a causa dell’abbassamento dell’appannaggio, dovuto alla crisi conseguente l’eversione della feudalità. Infatti dopo il 1806 il Barone Francesco perde i privilegi feudali ed è oppresso da forti imposte fondiarie. Inoltre nel 1809 Francesco Marsico e Igriazio Valentone vengono derubati e successivamente ricattati da alcuni briganti di Dipignano.
Dopo decenni di prosperità arrivano per i Marsico momenti difficili, che il Barone Francesco si trova ad affrontare in età avanzata.
L’abolizione della feudalità, la crisi politica, il governo militare, le scorrerie dei briganti e la riduzione del demanio causano una forte diminuzione delle rendite di Francesco Marsico, tanto che egli non è più in grado di soddisfare la promessa dotale, di 4.500 ducati ciascuno, fatta alle figlie Nicoletta, Anna Maria e Settimia andate spose, rispettivamente, a Diego di Tarsia, Gaspare Andreotti, Antonio Tirelli e Giuseppe Cavalcanti.
Questi ultimi, per essere soddisfatti delle promesse dotali, adiscono le vie legali chiedendo in aggiunta gli interessi maturati; per adempiere a questi oneri, Francesco Marsico vende alcuni fondi tra cui Contessa.
Intanto, la moglie Maddalena Caputo, preoccupata dall’assottigliarsi del patrimonio familiare, si fa cedere nel 1814 alcuni fondi, siti a Lattarico e San Benedetto, per un suo dignitoso mantenimento.
Si riduce cosi ulteriormente il patrimonio di Francesco Marsico che non è perciò in grado di mantenere e migliorare le colture dei suoi fondi, così come non è più in grado di estinguere i debiti contratti con il Monte Ciarletti di Napoli.
Gli vengono in aiuto i figli Vincenzo e Antonio che ricevono, però, in dono metà dei beni posti nei territori di Lattarico e Regina.
Dal 1828, e per molti anni a seguire, la maggior parte di questi beni viene venduta per sanare i debiti accumulati dalla famiglia.
Il Barone Francesco Marsico muore a Lattarico il 23 settembre 1830. I figli maschi del Barone Francesco Marsico sono: Antonio, Vincenzo e Giuseppe, quest’ultimo muore a Lattarico nel 1819, a soli ventotto anni senza lasciare eredi.
Antonio, nato presumibilmente a Lattarico nel 1782, è l’erede della Baronia di Lattarico, Regina etc.; nel 1805 sposa a Napoli Cecilia Capecelatro dei Duchi di Morrone e dalla loro unione nascono: Ehsabetta, Angela, Francesca, Antonio, Rachele e Vincenzo.
Vincenzo è, invece, Intendente di Catanzaro, ha un ruolo di preminenza e contribuisce ammirevolmente ai moti insurrezionali di quella Provincia. Possiede una vasta proprietà a Taverna Nuova, che migliora con la costruzione di un palazzo nel 1847.
Parallelamente alle vicende dei Baroni di Lattarico, si svolgono quelle dei Baroni di Campitelli; Raffaele Marsico (Altilia l744-1809) e infatti titolare della Baroni a di Campitelli presso Altilia.
Di questo feudo si hanno notizie a partire dalla metà del sec. XV; l’ultimo intestatario finora conosciuto è Leopoldo Medici Gatti da Martirano nel 1777.
Barone di Campitelli, nel 181529, 1830 e 183230, risulta essere Michele Marsico, figlio di suddetto Raffaele e di Brunilla Caruso, nato ad Altilia nel 1773 ed ivi residente nel palazzo posto sotto il Monastero; e uno dei maggiori possidenti della Valle del Savuto.
Nel 1798, Raffaele Marsico chiede al fratello Gaetano, residente a Napoli, di combinare un buon matrimonio per il figlio Michele, al quale assegna in dote i fondi Campitelli e Spatolette, presso Altilia, Acqua del Monaco, a Grimaldi.
Michele Marsico sposa Maria Mazzei, figlia di Nicola – Regio Giudice di Belvedere – e di Cassandra Calandro da Belvedere. Contribuisce, insieme a Gabriele De Gotti e Vincenzo Federico, all’affermazione dei principi di libertà e di indipendenza; fu sindaco di Altilia.
Il 5 novembre 1809, il fratello Ferdinando viene ucciso a colpi di lucile nelle campagne di Aiello, in circostanze misteriose36, a soli 23 anni, senza lasciare eredi.
Il 24 aprile 1813 nasce, da Michele Marsico e Maria Mazzei, Gaspare Giorgio Lupo Nicola. Il giovane Marsico cresce nel clima liberale di Altilia, giovanissimo si iscrive alla Giovane Italia, partecipa al tentativo insurrezionale del 1848 ed è uno degli animatori del Comitato di Salute Pubblica. Sposa Carolina Cosentino da Aprigliano Corte, figlia di Giuseppe Maria fu Vincenzo, e dalla loro unione nascono39: Francesca e Michele. Deputato al Parlamento, muore nel 1874.
Nel 1828, il Barone di Campitelli, Michele Marsico, chiede all’Arcivescovo di Cosenza il permesso di erigere una “Cappellina di suojus patronato per se’ e per i suoi eredi”, nella Chiesa di Santa Maria Santissima del soppresso monastero dei Minori Conventuali, sito in Altilia. Avendo ottenuto l’assenso nel 1830, Michele Marsico si accolla le spese di ristrutturazione e di mantenimento della cappella di Santa Maria Immacolata, posta all’interno della Chiesa medesima, che viene adibita a cappella di famiglia.
Altri illustri personaggi della Casata Marsico sono: Giuseppe e Gaetano, figli anch’essi del Barone Antonio e di Nicoletta Mantuani.
Giuseppe nasce ad Altilia intorno al 1748 ma si trasferisce, insieme al fratello Francesco, a Lattarico, dove sposa Rosaria Martino.
Nel 1786 è nominato tutore dei Duchi Cavalcanti di Rota, per la prematura morte del Duca Vincenzo.
Nel 1837 Giuseppe Marsico lascia una cospicua eredità ai figli: Catilio, Armanno, Cristina, Tommaso, Enrico, Maria Teresa, Pasquale e Nicola.
Il figlio Raffaele, religioso dell’Ordine dei Riformati col nome di Padre Vitaliano, già nel i g30 aveva istituito suo erede universale il fratello Catilio, mentre la sorella Marianna, religiosa nel Monaca di Santa Chiara in Corigliano col nome di Mariantonia, rinuncia all’eredità.
Giuseppe Marsico muore a Lattarico nel 1838.
Gaetano, nato ad Altilia intorno al 1755, si forma culturalmente a Napoli, dove consegue la laurea in giurisprudenza; nel 1871 è notaio a Cellara.
A Napoli, dove gestisce gli affari di famiglia dal 1792 al 1798, sposa Angela Sorrentino.
Nel periodo che va dal 1806 al 1815, Gaetano Marsico è uno dei più importanti possidenti della Calabria Citeriore.
L’8 ottobre 1819, ormai prossimo alla morte, lascia alla figlia Teresa la somma di 1.200 ducati e nomina suoi eredi universali i figli Pietro, Luigi ed Emanuele 48. Muore pochi giorni dopo nel suo palazzo di Altilia.
Emanuele nasce ad Altilia intorno al 1791, risiede al “Fondaco” (ora via Convento) ed è sindaco di Altilia.
Sposa Saveria Amato da Amantea, ma, non avendo avuto figli, intreccia una relazione con Maria Folino di Altilia. Da questa unione nasce a Scigliano, nel 1848, Giuseppe Folino, il quale, riconosciuto successivamente come suo figlio, si chiamerà Giuseppe Folino Marsico.
Emanuele Marsico muore ad Altilia nel 1866.
Giuseppe Folino Marsico sposa, nel 1868, la cugina Teresa Marsico, figlia di Pietro e di Gaetana Caria. Si dà così origine al ramo Folino Marsico che userà questo cognome fino al 1872, quando le registrazioni avverranno col solo cognome Marsico.
Pietro, figlio di Gaetano Marsico e di Angela Sorrentino, nasce a Napoli il 10 agosto 1795. Vive a Napoli e ad Altilia dove risiede nel suo palazzo Marsico (oggi del Comune).
Nel 1843 riconosce come propria figlia Teresa Caria (sarà Teresa Marsico), nata a Rogliano il 20 maggio 1841 da una relazione con Gaetana Caria di Altilia, che sposerà nel 1851.
Fonte: parrocchie.it
Autore: Ivan Pucci
Elegante composizione di ignoto scalpellino locale. Presenta il portale in pietra tufacea scolpita con arco a tutto sesto e costoloni aggettanti.
Vincenzo Federici, detto CAPOBIANCO
Nacque nel 1772 ad Altilia. “Egli era di civil condizione, di vantaggiosa statura; di tempra gagliarda, quantunque corpulenta; di avvenente volto, ma grave; di occhi scintillanti sotto ampia fronte e biondi capelli; di poveri studii, compensati di naturale sagacia, dirittura di giudizio e persuasivo ragionare” (L. M. Greco, p. 19).
Fin dalla prima giovinezza propugnò principi di libertà. Influenzato dalle istanze dei novatori cosentini, i quali, nel 1799, sull’esempio di quella partenopea, avevano proclamato anche a Cosenza la Repubblica, il Federici, nel suo paese, dove, al pari di tutti i Comuni silani, i contrasti tra i contadini e la borghesia terriera accendevano aspri conflitti, fu un convinto assertore dell’esperienza repubblicana, trasformatasi ben presto in una questione più sociale che politica.
Non appena, poi, nel Regno di Napoli aveva incominciato a diffondersi la carboneria, egli fu tra i primi adepti della provincia di Cosenza. In una lettera che il re Gioacchino Murat scrisse a Napoleone nel febbraio 1809, nella quale si accennava a un elenco di patrioti carbonari delle regioni meridionali, operanti isolatamente e senza costituire, ancora, un reale pericolo per le istituzioni, era segnalato anche il nome del Federici.
Ad introdurre la carboneria in Calabria e nel Mezzogiorno, subito dopo il ritorno, nel febbraio 1806, dei Francesi, venuti, questa volta, non come conquistatori ma come riformatori e ispiratori di ordinamenti ed orientamenti liberali, era stato, con ogni probabilità, Pierre Joseph Briot, già deputato giacobino e fervente italofilo, e, dal luglio 1807 al settembre 1810, intendente della provincia di Cosenza, dopo una sua breve permanenza a Chieti.
Il Murat, consigliato anche dal genovese Antonio Maghella, ministro di Polizia, favorì in un primo tempo la carboneria e la sua diffusione, facendola apparire come il più valido puntello dei trono, con l’intento di servirsene al momento opportuno per ottenere l’autonomia del Regno. La carboneria, in questa prima fase, non più che un misto di sentimenti indipendentistici e di aspirazioni costituzionali, si diffuse rapidamente in diversi paesi della provincia cosentina. La prima vendita carbonara, ufficialmente costituita, sorse, ad opera del medico Gabriele De Gotti, amico del Briot, nel 1811 nella stessa Altilia.
Pur sottoposta, nei suoi primi anni di vita, alle influenze murattiane, la carboneria calabrese fu originariamente francofila e affiancò l’opera del governo, ma quando nella vicina Sicilia, dietro le sollecitazioni dell’Inghilterra, i Borboni, nel 1812, concessero la costituzione, i carbonari calabresi, in particolare quelle frange che avevano appoggiato i Francesi, presero ad avversare il Murat e a valutare la possibilità di Ferdinando re costituzionale. La propaganda anglo-borbonica ebbe così facile gioco nell’orientare la società segreta contro il monarca francese, il quale, d’altra parte, per il suo assolutismo amministrativo, e nonostante il favore che godeva presso numerosi strati delle popolazioni meridionali, si era sempre dimostrato contrario ad assecondare il movimento che chiedeva la concessione delle istituzioni rappresentative.
Anche il Federici, attivo maestro della vendita di Altilia, subì, certamente, il mito della costituzione siciliana e da amico (il generale Manhès, comandante militare della Calabria, lo aveva nominato capitano delle guardie civiche nel suo circondario) divenne irriducibile nemico dei Francesi, inclinando verso i Borboni e intraprendendo la via della rivolta armata.
Divenuto, nel frattempo, capo della carboneria calabrese, egli non solo stabilì contatti continui con le vendite della regione, con quelle della Sicilia e “per organo dell’alta vendita napoletana con quelle del Nord d’Italia” (Andreotti), ma la introdusse anche negli ambienti più disparati della società calabrese, sia nelle classi popolari, sia nella cerchia dei militari e del clero.
Quando i carbonari, pur divisi tra di loro, tra gli elementi sensibili alle promesse anglo-borboniche e quelli ancora fedeli al Murat, pensarono di costituire la Repubblica a Catanzaro, la conduzione dell’iniziativa venne affidata al Federici, come a colui che avrebbe saputo meglio cogliere i vantaggi della favorevole circostanza del contemporaneo impegno militare del Murat in Russia e delle esigue truppe presenti in Calabria, indebolite, peraltro, dalla assidua vigilanza che dovevano esercitare sullo stretto di Messina per frenare le ambizioni dei Borboni.
L’idea di un moto in Calabria, per ottenere dal governo le riforme costituzionali, venne al Federici nel 1813. Il 12 agosto, avvalendosi del suo grado militare e senza un programma ben definito, egli raggiungeva i civici del circondario di Carpanzano e, fingendo di aver ricevuto speciali incarichi dalla polizia, ordinava loro di tenersi pronti a una eventuale chiamata. Nello stesso tempo, con un’accesa lettera circolare, si rivolgeva alle vendite carbonare della provincia, chiedendo l’aiuto di validi armati per provvedere alla comune difesa, dato che il governo aveva ordinato l’arresto dei rivoltosi.
Dopo una prima, lieve sommossa durante la fiera che si svolgeva sulle rive del Savuto, il 15 agosto si mossero Scigliano e Aprigliano, insospettendo il comandante della provincia G. Jannelli, che intervenne subito e, per ristabilire più prontamente l’ordine, promise agli insorti l’impunità ove fossero tornati tranquilli nelle loro case. Tutti obbedirono, eccetto il Federici, che si diede alla latitanza. Il suo atteggiamento ribelle preoccupò le autorità cosentine, le quali decisero di riferire la cosa al Manhès. Il generale dapprima lo richiamò personalmente e, subito dopo, spedì il suo “aiutante generale Garnier” con una lettera da recapitare al Federici, attraverso l’intendente L. Flach.
Il latore della missiva, scelto nella persona del sacerdote Carlo Bilotta, convinse il Federici, col quale era in grande intimità, a recarsi in sua compagnia a Cosenza presso l’intendente e presentarsi al campo insieme col Garnier. L’accordo, suggellato da un pranzo, durò poco, in quanto il Federici, allontanatosi con un pretesto per timore di essere arrestato, decise di riprendere l’insurrezione, arroccandosi nella natia Altilia.
Il 15 settembre un distaccamento mosse contro il paese, ma nessuno degli abitanti tradì il Federici che, dopo aver brevemente parlamentato con un inviato dei soldati, diede ordine ai suoi di sparare sul manipolo. Il comandante della spedizione dispose così di mettere a ferro e a fuoco l’abitato se la popolazione non avesse consegnato il Federici, ma questi, per salvare la sua gente, si dette alla fuga.
L’energica azione militare convinse il Federici ad intensificare l’agitazione. Il suo nuovo disegno era quello di sollevare la provincia di Cosenza, senza versare sangue se non in caso di estremo bisogno e proponendosi di rispettare la proprietà, e contemporaneamente di preparare la rivolta nelle altre due province di Catanzaro e Reggio Calabria, dove gli anglo-borboni, venuti espressamente dalla Sicilia, avrebbero preso la direzione del moto.
Dopo aver inviato emissari a Cosenza e nelle province limitrofe, illudendosi che la sola presenza dei suoi seguaci avrebbe suscitato la rivolta, il Federici tentava di penetrare a Cosenza. Ma la fortuna non aiutò i carbonari. Giunti a Dipignano, essi furono respinti dai legionari e durante la ritirata il Federici non riuscì a ricongiungersi coi compagni. Ritrovatili solo a tarda sera, decideva di licenziarli.
Così finiva la sommossa, che era stata caratterizzata, in gran parte, da una larga penetrazione popolare, ma non la caccia al Federici. Nel pomeriggio del 22 settembre il Manhès entrava in Cosenza per calmare la popolazione e per rinsaldare l’autorità del governo. Egli ordinò l’arresto di tutti i sospetti e grazie alla delazione di R. M. Mileti, vicario capitolare di Nicastro, convinto bonapartista (sarà ucciso, a sua volta, dai carbonari nel 1815 per vendicare il tradimento), il Manhès arrivò al rifugio del Federici, il quale, così, veniva catturato.
Dopo un processo sommario conclusosi con una condanna a morte per ribellione, tradimento e cospirazione, destinata a suscitare vasta eco di indignazione di cui avrà notizia lo stesso Napoleone, il Federici fu portato al patibolo, il 26 sett. 1813, a Cosenza.
Fonte:
Altilia e la sua gente. Cenni storici e personalità di un comune della valle del Savuto.
Autore:
Gianfranco Ferrari
Con la fine dell’Impero Romano e prima della ripresa bizantina, la storia delle maestranze operanti in Calabria viene coperta da un fitto velario di tenebre. Queste si risollevano soltanto dopo vari secoli, e si mostrano tuttavia impregnate di una romanità cui la rozzezza di tempi oscuri non ha tolto il senso della massa e la linea semplice e dignitosa.
L’enorme lacuna incomincia a colmarsi almeno dal VII secolo, con le costruzioni di carattere bizantino e basiliano-normanne. Da Stilo a S. Marco, da Roccelletta a Gerace si può dare un senso alla storia dell’arte muraria Calabrese. Certo, il periodo normanno concentrava l’attività delle maestranze Calabresi; nell’incremento di tutte le arti, nello scambio di esempi e di esecutori, specialmente tra Calabria e Sicilia, si giovavano le reciproche maestranze e, tramite l’elemento monastico basiliano, si trasmettevano esperienze, caratteristiche e sistemi. Le nostre maestranze operavano, guidate e dominate dalla corrente romano-ravennate, per la robustezza necessaria alla regione sismica e per l’attaccamento ai sistemi classici. Il romanico espresso in maniera lenta e rude stilisticamente, si diffonde dal Cosentino fino alle propaggini del Montalto.
La funzione innovatrice, passa dai basiliani ai cenobiarchi latini, benedettini cistercensi, florensi e poi ai dominicani e ai francescani. Saranno esempi e schemi ridotti prevalentemente lombardi, romani, nordici, che appariranno nelle iconografie ed in qualche capitello imitato da oscuri scalpellini calabresi. Rintracciare qualche frammento di vita degli artisti bruzi è il compito più arduo. Nessuno ha tenuto in conto che presso le cave di pietra e le fitte boscaglie, hanno avuto , per generazioni, le loro botteghe di scalpellini. Sono rimasti umili, ma le loro opere rimangono; si vede l’impronta di salda rusticità nella squadratura dei conci, specie dove le ubicazioni interne ed impervie, non consentivano di lavorare che ai nativi, col materiale locale. Le fedeli maestranze cosentine operose nella valle del Crati e del Savuto, resisteranno alle correnti artistiche nuove che investiranno le fondazioni monastiche; con il gotico dei cistercensi e con quello degli angioini e dei gentili senesi. Le costruzioni avranno portali ad arco acuto, con i loro fasci di colonnine col nodo gotico a metà, con le loro cordonatura e le cornici intagliate duramente a fogliame aperto, dalle orlature a lobi semicircolari; saranno riprodotti nei tufi in quasi ogni casale e paese della Sila.
Altilia e Mendicino daranno le maestranze più tenaci e longeve, per la rifioritura artistica dell’acrocoro e delle sue valli, fino al Trionfo, fino al Savuto. I ricostruiti paesi conosceranno l’attività secolare di quella generazione di costruttori e di scalpellini.
Il trapasso da classico cinquecento al seicento non ha la minima soluzione di continuità. La cronologia non conta; le maestranze calabre proseguivano il lavoro fedelissime agli esempi che erano sempre gli stessi. Le ricostruzioni ed i restauri avvenuti dopo i terremoti del sec. XVI e dei principi del sec. XVII, facevano convergere maestri di muro e scalpellini nei centri maggiori. Ma i muratori di Celico, i marmorari Gimiglianesi, i capimastri Roglianesi, gli scalpellini di Altilia e Mendicino avevano un nome già nella provincia cosentina.
Il Barocco invadeva, favoriva il decorativismo, e purtroppo rinnovava e rivestiva di gesso e pietre venerande ovunque dove sorgevano chiese fastose. L’interno del Duomo cosentino con un velario di bianco su rivestimenti, modiglioni curvilinei e cimase, veniva trasformato totalmente.
Interamente in pietra di Altilia, e fra le opere di scalpellini locali, le facciate delle chiese di Scigliano e la chiesa matrice di Rende. Più a sud lavoravano intensamente le generazioni di scalpellini di Altilia, sempre morigerate nello stile e che siglavano le loro opere fino all’Ottocento, con gli ultimi eccellenti capomastri: Domenico Gaetano, Romano, Giuseppe e G. B. Caruso, Antonio Marsico, Fortunato Ferrari. Essi erano in attività rinnovata per i portali e gli altari barocchi e neoclassici.
La maggiore fama raggiunta dai capomastri della scuola di Altilia, si ha dal XVI secolo fino all‘Ottocento, rinnovando i modelli cistercensi calabresi, senza però disperderne l’antica matrice. Si aggiunga che nelle cave di Altilia, lavorarono i maggiori maestri scalpellini di diverse aree geografiche e culturali, in primis i maestri cistercensi.
La pietra da taglio usata per costruire il Duomo di Cosenza proviene soprattutto dalle cave di Altilia. La scuola elaborò modelli propri e superò di gran lunga l’ambito del proprio territorio, finendo con l’attestarsi sui parametri non inferiori a quelli di Rogliano.
Fra il 1200 e il 1500 le cave di Altilia vengono sfruttate sia da maestranze locali che da scalpellini provenienti dalla valle del Crati e dalla presila, soprattutto roglianesi e cistercensi.
Negli anni a cavallo tra il 1500 al 1638 si ha il maggiore momento di creatività quando la scuola lavora attorno a moduli dell’arte cistercense. Successivamente, con uno straordinario fervore di iniziativa, i maestri altiliesi tentano anche nuove soluzioni espressive: muovendo dall’esempio dell’arco cigliato del Duomo di Cosenza, essi giungono alla trasformazione della cigliatura in una sorta di cordolo che incornicia tutto il portale e persino la chiave dell’arco, sortendo un effetto di grande originalità.
Dopo il terremoto del 1638, che distrusse Altilia , e fino al 1850 inizia un periodo di intenso sfruttamento delle cave di pietra per la ricostruzione del patrimonio edilizio. La frequentazione delle pregiate cave Altiliesi, da parte di scalpellini provenienti da diverse scuole, facilitò la circolazione delle idee e la conoscenza delle nuove tecniche e nuovi modelli. Lo scambio più fecondo, superate le reciproche diffidenze, resta comunque tra i maestri di Altilia e di Rogliano, i quali utilizzano nel ‘700 il modello di cordonatura cistercense. Tra la seconda metà del Settecento e la fine dell’ Ottocento i modelli altiliesi sono diffusi in buona parte del territorio calabrese, da Aieta a S. Giovanni in Fiore, da Grimaldi a Pallagorio.
La scuola di Altilia elabora durante il suo percorso storico tre tipologie di portali:
ー AD INCORNICIATURA CISTERCENSE: impone un modello in cui la cordonatura principale, che determina l’intradosso, è aggettante, uno spunto che trova applicazione nei portali di palazzo Federici (Altilia) e della casa Mannelli (Grimaldi).
ー CON INCORNICIATURA AD ARCO CIGLIATO: è visibile in palazzo Funari di Altilia. Il portale è di ordine semplice, con incorniciatura aggettante desunta dall’arco cigliato del Duomo di Cosenza. Nella tipologia più antica, del Cinquecento, l’incorniciatura è estesa anche alla chiave dell’arco che lo potenzia caratterizzandolo.
ー AD ORDINE SEMPLICE E SERRAGLIA ARALDICA oppure a DOPPIO ORDINE ALTILIESE E SERRAGLIA ARALDICA: è stata realizzata da maestranze altiliesi e risulta simile, dal punto di vista strutturale, al doppio ordine fuscaldese: la parte dell’intradosso è aggettante, quella dell’estradosso è una fascia continua che le fa da incorniciatura, collegata al primo ordine solo attraverso i capitelli ed i plinti (casa Pagliuso – Maione).
Per tutte le tipologie descritte, gli elementi unificanti sono i plinti e i capitelli. Solo nell’arco cigliato la chiave è organicamente fusa con l’incorniciatura.
La stessa chiave, elemento peculiare di questa scuola, si distingue in due tipologie distinte:
ー A VOLUTA
ー A SERRAGLIA ARALDICA.
Quest’ultima, che resta l’elemento caratterizzante di tutte le tipologie di portali, collega in modo organico le modanature, ma si innesta come un fregio scolpito in una lastra con rilievi piatti, incisi sul piano, concepiti per una visione rigidamente frontale. Questa caratteristica chiave interrompe l’andamento plastico del portale, soprattutto nel modello cistercense , in cui sia i capitelli che i plinti fasciano le modanature con andamento continuo.
La tradizione degli scalpellini altiliesi concentra la sua attività alla realizzazione di portali. Ma osservando in toto una struttura si notano altri manufatti che non passano certamente inosservati per le loro esemplari decorazioni. Sugli esterni degli edifici si possono notare decorazioni molto raffinate.
Ci sono varie tipologie di balconi, che vanno da quelli tipo veranda a quelli a sbalzo, interamente in pietra e addirittura con balaustre di tale materiale. Anche le finestre vanno dalle semplici incorniciature alle decorazioni che richiamano l’andamento decorativo dell’edificio. Possono essere di tipo rettangolare verticale, quadrate o addirittura ovali e circolari. Negli interni degli edifici troviamo scale realizzate in pietra con corrimani interamente decorati. Porte interne di magazzini ad arco schiacciato con griglie in pietra per l’areazione dei locali. Pavimentazioni e fregi decorativi nei palazzi più importanti, per i quali realizzavano anche gli stemmi nobiliari. Importanza particolare veniva dedicata ai caminetti sui quali gli scalpellini si sbizzarrivano con le più svariate decorazioni. Realizzavano in oltre macine per i mulini, mortai per la polverizzazione del sale e vasche per la raccolta delle acque.
Fonte:
Gabriele Ferrari
Il paese di Altilia è incastonato su uno sperone roccioso stratificatosi nel corso dei millenni in piani obliqui con corpose falde di calcarenite, la tipica pietra altiliese. I primi giacimenti vengono individuati nella parte alta della collina, in località “Serre”, dove ancora oggi sono visibili due fronti di cava con tipologia estrattiva a vasca ed a cielo aperto.
Abbandonato questo sito, forse per il raggiungimento di uno strato molto duro della pietra ed ostile alla lavorazione, le maestranze individuarono nei pressi dell’alveo del torrente “Fiumicello”, che si trova a valle della collina altiliese, un nuovo sito per l’estrazione. Qui, trovando le stesse caratteristiche della falda precedente, ma che la presenza dell’umidità portata dal fiume facilitava l’estrazione e la lavorazione della caratteristica pietra di Altilia.
Da questo luogo, che viene conosciuto come “Parrere” (forse dalla parola francese “parrère”, che significa cava di pietra) iniziò la longeva estrazione che vide questa pietra molto ricercata da tutte le maestranze calabresi per le sue qualità plastiche nella lavorazione, ma soprattutto per la resistenza agli agenti atmosferici.
Le cave non sono più sfruttate da quasi un secolo e tutto è rimasto intatto dall’ultima volta che gli scalpellini frequentarono questi luoghi; infatti in alcune cave sono ancora presenti manufatti appena sbozzati o addirittura pronti per la posa in opera.
La caratteristica composizione mineraria della pietra di Altilia, ci porta a suddividere il fronte delle cave in due sezioni. A valle troviamo una tipologia di pietra più porosa, senza impurità, ottima nella lavorazione e molto resistente agli agenti atmosferici. Infatti in questa zona veniva estratta la pietra destinata alla realizzazione di portali, facciate di edifici, ecc.
A monte invece si trova un’altra tipologia di pietra, con caratteristiche identiche a quella precedente, ma con la differenza di non essere porosa; si presenta molto compatta e più soggetta all’erosione. Questa affiora in superficie in molti punti e veniva utilizzata principalmente per la realizzazione di caminetti, forni, balaustre ed archi interni; insomma tutte quelle opere destinate ad un uso non esterno.
Le cave individuabili ad oggi sono tredici, ma di queste solo nove sono fruibili. In esse è possibile trovare incise date e nomi appartenenti agli scalpellini che vi lavorarono.
La più antica cava sembra essere quella con incisa la data 1316 e due iniziali J.M. (Joannes Marsico).
L’attività estrattiva nelle cave era regolata da specifiche figure professionali: i “TRINCARI” erano gli addetti all’estrazione ed alla squadratura dei conci, i “MASTRO SCALPELLINO” rifinivano e decoravano e i “MULATTIERI” che trasportavano il materiale pronto verso il cantiere.
Osservando con attenzione l’interno di queste cave si possono notare i vari modi d’estrazione della pietra che si sono susseguiti negli anni. Da ciò possiamo presupporre anche la longevità delle stesse. Quindi, nelle cave più antiche la pietra veniva estratta in blocchi. Questa operazione prevedeva la realizzazione di una linea di taglio relativa alle dimensioni del blocco e sulla stessa venivano praticati dei fori nei quali si inserivano dei cunei di legno di quercia o castagno. Imbevendo d’acqua i legni e praticando pressioni su di essi, i cunei gonfi d’acqua permettevano il distaccamento del blocco dalla roccia.
Con il passare degli anni venne abbandonata questa antica tecnica d’estrazione e utensili come cuneo, mazza, palanchino, lasciarono il posto agli esplosivi. Le mine venivano introdotte all’interno delle rocce tramite dei fori cilindrici distanti uno dall’altro 30 cm. L’esplosivo, associato in sequenza, veniva fatto esplodere in maniera simultanea tramite inneschi. Con questa tecnica di estrazione la roccia si distaccava dalla parete in maniera disomogenea.
Gli strumenti per lavorare la pietra erano di varia forma e taglio; si va dai palanchini, punciotti e mazze per l’estrazione fino a scalpelli a punta e taglio per la lavorazione dei decori più raffinati. La fondamentale capacità dello scalpellino era quella di conoscere tutte le caratteristiche del materiale che poi trasformava.
Il maestro scalpellino cominciava il suo lavoro sbozzando il blocco grezzo in pietra con dei punciotti e delle lime portandolo alle dimensioni richieste dalla composizione. Successivamente si passava alle decorazioni che, con scalpelli di piccole dimensioni a punta e taglio, venivano realizzate sul blocco stesso. Finita la lavorazione dei moduli in pietra si passava alla messa in opera degli stessi sotto l’occhio vigile del capomastro che aveva realizzato il manufatto.
L’abilità dei maestri, oltre alle minuziose decorazioni, era di far combaciare perfettamente tutti i moduli in pietra che componevano l’opera.
La pietra di Altilia: dalle cave alla posa in opera
LA LAVORAZIONE
Il blocco di pietra deve essere diviso in pezzi a seconda delle dimensioni desiderate. Nella divisione è importante riconoscere il verso, il secondo, il contro. I pezzi ottenuti vengono in un secondo momento sbozzati e portati a compimento sia per l’aspetto superficiale che per la forma.
Gli strumenti per lo sbozzo di pietre dure sono:
ー Subbia;
ー Scalpello.
Per lo sbozzo delle pietre tenere si utilizzano:
ー Asce;
ー Scalpelli a taglio largo o pialle.
Per dare compimento si utilizzano:
ー Subbia fine;
ー Gradina;
ー Martellina;
ー Bocciarda.
La lavorazione delle facce dei conci per muratura deva essere perfetta sulle superfici di appoggio. Le superfici laterali sono invece rifinite solo per una ristretta fascia lungo i bordi.
METODI DI TRASPORTO E MESSA IN OPERA
La discesa dei blocchi dal fronte di cava poteva avvenire con:
ー CADUTA LIBERA: si sfruttava la forza di gravità facendo scivolare i blocchi sul pendio;
ー LIZZATURA: i blocchi caricati su slitte di legno, scendevano lungo piani inclinati scivolando su traverse di legno trattenuti da squadre di uomini mediante robuste funi;
ー CARRI A TRAZIONE ANIMALE, avevano un assetto particolare (ruote posteriori più piccole delle anteriori) per mantenere il carico orizzontale e non gravare troppo sugli animali.
L’uso di diversi metodi era dettato dalle particolari condizioni sia del materiale cavato che dalla morfologia della cava e del territorio circostante.
La posa in opera dei conci per la costruzione di un edificio richiedeva l’impiego di macchine più o meno complesse a seconda del peso dei conci stessi. La macchina più semplice detta CAPRA, adatta al solo sollevamento verticale, era costituita da tre travi in legno, riunite in alto a sostenere il paranco. Il sollevamento dei pesi era reso possibile da verricelli mossi a braccia oppure da gigantesche ruote mosse da uomini che camminavano al loro interno. L’ancoraggio della pietra era effettuato con corde, olivelle, con tenaglie che venivano inserite in due fori praticati su una faccia del concio e che, tirate da una corda, facevano sì che il peso stesso del blocco, chiudendo queste tenaglie, lo sollevasse.
Fonte:
Gabriele Ferrari